venerdì 8 febbraio 2013

(Call for Post 1) La funzione pubblica della filosofia analitica



Si ritiene spesso che la filosofia analitica non abbia nessuna funzione pubblica. Vorremmo mostrare che così non è. Certo non si tratta di una filosofia “epocale”, tale cioè da fornire l’interpretazione globale di un’epoca storica o di tutta la vicenda umana, come possono essere stati il marxismo o l’esistenzialismo; ciò però non significa affatto che la filosofia analitica non possa avere un’importante funzione pubblica, in un senso a un tempo più limitato e più preciso del termine. Essa può infatti aiutarci a capire meglio problemi specifici rilevanti per decisioni di carattere pubblico. Qui non ci occuperemo di casi di filosofia politica, ad esempio che cosa debba intendersi per giustizia, eguaglianza o libertà. Al contrario, cercheremo di abbozzare tre casi ascrivibili all’alveo della filosofia teoretica e del linguaggio, per mostrare come una loro comprensione alla luce di un paradigma analitico possa avere importanti ripercussioni pubbliche.
Primo caso: identità personale - vaghezza. Che cos’è una persona? Questa domanda solleva grandi interrogativi teorici che hanno una estrema rilevanza per questioni pubbliche come l’aborto e l’eutanasia. Ma quando possiamo dire che una persona inizia ad esistere? La difficoltà di rispondere a questa domanda è dovuta, almeno in parte, al fatto che la nozione di persona è vaga. Infatti, dopo il concepimento e prima della nascita c'è un periodo in cui non è chiaro se, il pre-embrione, l'embrione o il feto siano da considerarsi una persona. Per molti è una questione intrinsecamente indeterminata se in questo periodo il feto sia una persona o no. Per questioni pratiche – ovvero per avere una normativa – si è deciso a quale settimana dopo il concepimento il feto debba considerarsi persona. È però opinione diffusa che vi sia un certo grado di arbitrarietà in questa decisione. L'arbitrarietà deriva dal fatto che tutto quello che sappiamo sullo stato fisico dell'embrione (età, condizioni fisiologiche ecc...) non sembra essere sufficiente a determinare una risposta alla domanda su quando inizi ad esistere una persona durante questo periodo. Alla domanda se, ad esempio, al 13° giorno dal concepimento sia presente una persona, si possono dare risposte evasive come “non direi che la cellula sia una persona, né che non lo sia”, o “si possono dire entrambe le cose”, o “è una via di mezzo”. In altre parole, possiamo dire che in questa fase la blastocisti sia un caso borderline di persona. In cosa consiste la natura di questi casi borderline? Sono dovuti al significato della parola “persona” (vaghezza semantica, riparabile con una stipulazione linguistica), sono un caso di ignoranza di fatti determinati che non possiamo sapere (vaghezza epistemica, problematica per noi esseri umani non per un eventuale occhio di dio, ma bisognerebbe credere che esista) o sono i fatti stessi ad essere indeterminati (vaghezza ontologica, problematica per chiunque e non rimediabile)? Elaborare una teoria sulla natura della vaghezza ha quindi delle conseguenze sulla comprensione di questioni, come quella sulla persona, che hanno un ruolo cruciale nel dibattito pubblico.
Secondo caso: il disaccordo. Siamo spesso in disaccordo con altri su molte questioni e in tanti casi non è chiaro chi ha ragione e chi ha torto. Supponiamo di dover pagare il conto di una cena. Dopo un breve calcolo mentale, affermiamo che dobbiamo dare 25 euro a testa, ma un nostro amico dice che ne dobbiamo dare 27. Siamo in disaccordo, pur avendo letto lo stesso scontrino ed avendo le stesse abilità nel compiere semplici operazioni aritmetiche. L’epistemologia contemporanea di matrice analitica si chiede: il fatto stesso di essere in disaccordo con qualcuno che ha accesso alle nostre stesse informazioni deve portarci a rivedere le nostre opinioni? Cos’è razionale credere in questi casi? Potrebbe sembrare razionale rivedere le nostre credenze. Dopo tutto, dato che l’amico ne sa quanto noi, non si vede perché lui debba avere meno probabilità di avere ragione. Persistere nel disaccordo sarebbe segno di cocciutaggine, non di razionalità; faremmo dunque meglio a trovare una soluzione comune, come ad esempio sospendere il giudizio sulla questione. Tuttavia, la sospensione del giudizio è una scelta perniciosa quando applicata a casi di disaccordo controversi e che ci stanno più a cuore, come ad esempio un disaccordo sulla liceità morale dell’aborto. Se sospendere il giudizio fosse la sola opzione razionale, ci troveremmo di fronte a un esito scettico che lascerebbe poco spazio alla possibilità di compiere progressi nella comprensione del problema in esame. Disaccordi come quello sulla liceità morale dell’aborto sono al centro di importanti dibattiti politici e culturali. Stabilire cos’è razionale credere in casi controversi di disaccordo può quindi giovare alle azioni politiche e sociali da intraprendere nei confronti di temi così delicati.
Terzo caso: la testimonianza. Gran parte della nostra conoscenza dipende dalla testimonianza. Sappiamo che Napoleone fu sconfitto a Waterloo nel 1815 perché l’abbiamo letto sui libri di storia; sappiamo che il premier ha detto che l’Europa deve impegnarsi di più per la crescita perché l’abbiamo letto sui giornali o sentito alla televisione. Un’idea intuitiva, però, è che sappiamo tutto questo solo nella misura in cui si può dimostrare che le nostre fonti sono affidabili. Tuttavia, mentre in alcuni casi è possibile farlo, usando metodi che a loro volta non presuppongono la testimonianza, in altri è del tutto impossibile. Non possiamo risalire indietro nel tempo e verificare direttamente l’accuratezza delle testimonianze storiche su Napoleone; e neppure nel caso del discorso del premier possiamo viaggiare nel tempo e verificare direttamente quello che ha detto. Al più possiamo solo confrontare varie testimonianze tra loro, ma non possiamo uscire dal circolo della testimonianza. E se, per caso, le varie fonti fossero state orchestrate ad arte, come potremmo, sulla base solo delle testimonianze, scoprire l’inganno? Di fronte a un tale scenario scettico, dobbiamo forse concludere che dopo tutto non sappiamo che Napoleone fu sconfitto a Waterloo o che il premier ha invitato l’Europa a fare di più per la crescita? Se questa conclusione fosse inevitabile il risultato sarebbe catastrofico, perché a ben guardare una messe enorme di conoscenze sarebbero solo presunte tali, proprio perché basate, in ultima istanza, unicamente su fonti testimoniali. Se vogliamo salvaguardare l’idea che dopo tutto abbiamo (almeno parte del) le conoscenze che riteniamo di avere, non possiamo fare altro che negare l’assunto di partenza; ovvero che per essere affidabile la testimonianza debba essere indipendentemente verificabile. Oggigiorno un intenso dibattito all’interno dell’epistemologia di tradizione analitica si confronta sul se e come dar senso all’idea che la testimonianza, al pari della percezione, possa essere una fonte di conoscenza basilare, mettendo in campo sofisticati strumenti di analisi. Com’è però del tutto evidente, tale questione è d’importanza cruciale per capire la nostra reale situazione epistemica, che, oggi più che mai, in un’era d’informazione di massa, può determinare importanti scelte politiche d’impatto enorme per la vita dei cittadini.
In questa breve rassegna abbiamo mostrato la rilevanza pubblica di alcuni temi oggi molto discussi nell’ambito della filosofia analitica. Non abbiamo fatto vedere a fondo l’impatto che le diverse risposte a questi quesiti possono avere su scelte di carattere pubblico. I limiti di spazio di questo intervento non lo consentono. In ogni caso, il punto fondamentale è che le domande su cui s’interrogano i filosofi analitici, prim’ancora che le varie risposte che ad esse danno, non sono questioni di lana caprina o sul sesso degli angeli, ma quesiti centrali per impostare correttamente discorsi di enorme rilevanza pubblica.
Annalisa Coliva
Sebastiano Moruzzi
Michele Palmira

1 commento:

  1. Concordo con Annalisa Coliva, Sebastiano Moruzzi e Michele Palmira sull’importanza che il dibattito nell’ambito della filosofia analitica su questioni come quelle da essi ricordate possa offrire un prezioso contributo alla discussione pubblica. Gli esempi riportati mi sembrano un’eloquente testimonianza del fatto che le tematiche di pertinenza dei filosofi analitici non si avvolgono in sterili controversie prive di ogni rilevanza per i “non addetti ai lavori”. Il mio intervento è rivolto unicamente a sviluppare un punto sul quale gli estensori del post non si soffermano. Si tratta di questo: il contributo che proviene dai filosofi analitici non può essere in ogni caso visto come un apporto neutrale, strumentale, tecnico, anche nei casi in cui produce l’effetto di chiarire i termini in gioco. In altri termini: non vorrei che si avvalorasse una polarizzazione tra filosofia “continentale”, cui è congenita la formulazione di interpretazioni epocali e di visioni normative, e filosofia “analitica”, segnata da una vocazione strumentale, ancillare, “di servizio”. Contro questa tentazione vorrei sottolineare che anche attraverso dibattiti come quelli che sono stati menzionati vengono veicolate istanze “di parte”, anche al di là della loro “apparente” neutralità. Prendiamo il caso delle teorie della vaghezza. Vi è evidentemente una gran differenza tra vaghezza semantica, epistemica e ontologica, una differenza che, come suggeriscono gli autori, si ripercuote sul tipo di soluzioni che possono essere mobilitate per ovviare ai problemi di categorizzazione. Si tratta di una differenza che si accompagna a una scelta di campo da parte di quanti prediligano un’opzione piuttosto che un’altra. Quindi, se è auspicabile che la prassi della filosofia analitica comporti una riformulazione delle posizioni, portando alla luce le tesi che i vari contendenti si impegnano a difendere, questa riformulazione non si traduce in una sterilizzazione: le assunzioni controverse non scompaiono e non diventano meno controverse per il fatto di venire riformulate nell’idioma analitico. E neanche l’operazione di modellizzazione di un problema nelle categorie filosofiche – analitiche e continentali – può essere vista come un apporto puramente strumentale, altrimenti dovremmo postulare l’esistenza di un contenuto che transita indenne dall’alveo della discussione pubblica nelle canalizzazioni rigide della riflessione filosofica.

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